Di Luca tra le due realtà

“Obviously this doesn’t go anywhere fellas… I just broke the Geneva Convention”

“Yeah, roger mate”.

Il ciclismo è arrivato in tv. Questa volta però in quella che “conta”, fuori dai soliti palinsesti sportivi o notturni per la nicchia di appassionati, o all’interno delle grandi kermesse nazional-popolari dei grandi giri, ma in un programma satirico di successo, con paillettes e lustrini.

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E non è il ciclismo delle volate o dei santini postumi agli eroi del passato, ma quello sporco e cattivo del dopato del presente.

La trascrizione (o parte di) dell’intervista che andrà in onda Mercoledì 22 Gennaio 2014 a Danilo Di Luca, “il killer di Spoltore”, è già disponibile in diversi siti, e fa discutere. O meglio farà (forse) discutere il grande pubblico, mentre lascerà nel solito limbo gli appassionati.

Cosa dice Di Luca? Niente di nuovo: si dopano tutti (o quasi, come se quel “quasi” fosse un dettaglio), non si può vincere un Giro senza doping, essere “beccati” è solo sfortuna, il doping è uguale per tutti, gli asini non diventano purosangue, etc…niente che non si senta quotidianamente in qualunque bar o negozio di bici.

I fatti sono decisamente tralasciati: chi? quando? come?

Chi mette in contatto chi? I dirigenti sanno? I medici sanno? Come funziona il meccanismo? Come si finanzia? Come si passa indenni ai controlli?

Addirittura Di Luca parla di combine, ma niente ci dice riguardo a cosa succeda in pratica a chi non paga, a chi non mantiene le promesse.

Per saperlo bisogna attendere le indagini giudiziarie, ma quelle interessano poco, la giustizia in Italia è lenta, quella di altri paesi troppo veloce da sembrare sommaria, la verità sta nei dettagli, “nelle carte” come si usa dire, e la gente (il grande pubblico) oggi, in tempi di like e dislike non ha tempo e voglia di star dietro a queste cose.

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Quindi l’impatto di un’intervista del genere si gioca tutto nell’attesa e nei commenti del giorno dopo, sempre al bar. Poi si passa a quello successivo.

“Avanti un altro” è uno dei commenti più gettonati in rete dopo un caso di positività. Il grande pubblico è assuefatto e l’indifferenza è un muro sempre più alto da scavalcare. Restano solo i like/dislike.

Il ciclismo però reagisce. L’ambiente del ciclismo, quello dei professionisti e degli addetti ai lavori. “Il ciclismo è cambiato” lo slogan. “Di Luca è solo la coda di un periodo buio”. Vincenzo Nibali ha persino dato del “cerebroleso” a Di Luca. E sicuramente Di Luca avrebbe fatto lo stesso se qualcuno lo avesse accusato di non poter indossare la maglia rosa se non grazie al doping.

Anche Cadel Evans, uno dei ciclisti con la fedina e la reputazione più immacolata del gruppo, si è sbilanciato sul caso Ballan, squalificato per 2 anni, puntando il dito sul fatto che per un professionista del pedale curarsi un virus può significare rovinarsi la carriera (anche se poi ammette di non saperne molto dell’indagine giudiziaria, forse a mettere le mani avanti).

Persino Lance Armstrong, ormai additato come il simbolo del periodo buio del ciclismo, ha sparato un colpo su twitter, dando delle stupido a Di Luca. Perché? Cosa ha fatto Di Luca di tanto diverso da LA? O forse lo ha fatto al momento sbagliato? In un momento in cui il ciclismo sta disperatamente cercando di rifarsi una verginità, di darsi una nuova immagine. I social network come fanteria: su twitter è un continuo di apprezzamenti, incoraggiamenti, complimenti tra corridori. L’immagine di una comunità, anzi di una famiglia. Non certo di gente che si dopa perché non si fida della “pulizia” altrui.

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Lance Armstrong ha anche fatto un Tour supplementare in giro per il mondo per incontrare tutte le persone che nel corso degli anni ha cercato di affondare, di rovinare, di battere. Da Christophe Bassons a Jan Ullrich a Betsy Andreu a Filippo Simeoni (questi ultimi due si sono rifiutati di incontrarlo).

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Il “tour della miseria” come lo ha definito Hein Verbruggen, uno che è rimasto fuori dai pentimenti di LA, anzi è in lizza per diventare il capro espiatorio della famosa EPOca maledetta, che molti vorrebbero già consegnata ai libri di storia.

Tra Ullrich e Armstrong sono volate parole di supporto, come tra due reduci: “Prima ci siamo combattuti, ma ora siamo sulla stessa barca”. Combattuti con ogni mezzo a quanto pare, perché nel libro di Tyler Hamilton Armstrong viene descritto come uno decisamente poco tenero ed affettuoso con gli avversari. “Bastardi assassini” è il modo in cui LA pare abbia descritto i suoi avversari in una conversazione con Hamilton per spiegargli la necessità di utilizzare ogni mezzo per vincere. Adieu, Monsieur DeCoubertin.

Alla fine cosa ci racconterà quindi l’intervista a Di Luca? Il mettere in evidenza come il ciclismo professionistico (e quello amatoriale che gli fa il verso) ha delle sue regole. Che non sono quelle scritte nei regolamenti della WADA o dell’UCI, ma quelle di chi si affronta sul campo.

L’agone ha le sue regole. E non sono quelle neoromantiche di DeCoubertin. Sono quelle di chi scende in campo in armi, per vincere, non per partecipare.

Negli scorsi mesi l’opinione pubblica britannica si è misurata con questa verità, quella scomoda da vedere e sentire davanti alla tazza di the o sul divano.

Durante una missione in Afghanistan un plotone di Royal Marines si è imbattuto in un’imboscata. Hanno chiesto rinforzi aerei, ed una volta che un elicottero Apache ha fatto piazza pulita sono andati a finire il lavoro. Gli assalitori erano però tutti morti, tranne uno, ferito gravemente. Il sergente Blackman ha estratto la pistola e lo ha finito con un colpo al petto, dicendo subito dopo:

“Obviously this doesn’t go anywhere fellas… I just broke the Geneva Convention” (“ovviamente questo resta tra noi…ho violato la convenzione di Ginevra” -ironico-)

Un soldato risponde: “Yeah, roger mate”. (“Ricevuto, amico” -non: “sergente” o “signore”-)

Peccato che uno dei soldati del plotone avesse una telecamera su una spalla ed abbia registrato tutto. Il sergente Blackman è stato condannato all’ergastolo.

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La famiglia del sergente però non è stata lasciata sola. I Royal Marines si sono uniti in uno sforzo economico per supportarla. “Un componente della famiglia ha sbagliato, ma non abbandoniamo uno della famiglia” ha detto un ufficiale. Ufficiali che non hanno mancato di far notare le difficoltà, lo stress, i pericoli di una missione a giustificazione dell’errore. Il fatto che per giudicare bisogna vivere certe cose, non sulla poltrona.

Piegati però alla fine, usi ad obbedir tacendo, dalla volontà ed opportunità politica.

Cosa direbbe il Sgt. Blackman in un’intervista? Probabilmente che sono cose che in guerra succedono, che è da ipocriti non ammetterlo. Forse che “quasi tutti fan così”? Ora il Sgt. Blackman è in galera, all’ergastolo (forse uscirà tra una decina d’anni).

Radiato. Chi sbaglia paga.

Ma resta la grossa differenza tra le regole di due mondi che si incrociano solo nelle interviste, nelle dirette tv, negli articoli di giornale, nelle inchieste giudiziarie. Sopratutto quest’ultime un punto di frizione tra questi due mondi. Un attrito logorante per entrambe le parti.

Cosa resta quindi di costruttivo? Forse prendere coscienza di questa differenza (morale?) tra due mondi e cercare di renderla più omogenea.

Come? Difficile da dire. Probabilmente a questo punto “smitizzando” l’ambiente del ciclismo. Purgandolo della retorica degli eroi tragici che ha martellato per un secolo le orecchie degli appassionati, mettendo di volta in volta sotto al tappeto amfetamine o EPO sull’altare delle “emozioni”. Idem nel presente, dove sarebbe meglio mettere tra parentesi “le tifoserie” e non mettere sul piedistallo ragazzi di 20-30 anni.

E soprattutto dandosi delle regole condivise e sottoscritte tra tutti gli attori in gioco ed a tutti i livelli. Senza lasciare che l’ambiente sia dilaniato tra giustizie diverse da paese a paese, da interessi di federazioni in competizione tra loro, sponsors e movimenti vari.

La “realtà” deve diventare una sola.

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