La mia Roubaix

spisanik

Pignone
22 Febbraio 2017
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Brescia
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Mi sono regalato la Roubaix.

Si. Ho deciso di fare una pazzia e provare ad affrontare la mia prima Gran Fondo in bicicletta. Certo non una Gran Fondo come le altre. Per il battesimo ho scelto un evento decisamente importante. Leggendario. L’Inferno del Nord. La Parigi-Roubaix.

Per chi segue il ciclismo dici Roubaix e dici molto, se non tutto: pavè; sofferenza, nomi mitici come Arenberg, Carrefou du Arbre, Velodrome; ciclisti immensi come De Vlaeminck, Merckx, Moser, Hinault, Boonen.

Ogni seconda domenica di aprile Roubaix diventa il centro del ciclismo. Migliaia di appassionati da giorni sono assiepati con i loro camper lungo il percorso in attesa della corsa.
E il sabato precedente altre migliaia di appassionati decidono di percorrere gli stessi settori di pavè che affronteranno i professionisti. Tra questi ci sono anche io: 172 Km, 29 settori di pavè per un totale di 52 km di pietre, da affrontare su una bicicletta da corsa. 29 settori con difficoltà differente, definita da delle stelle: due stelle grado minimo, cinque stelle grado massimo. La parola che accomuna tutti in questi due giorni è: passione. Passione per uno sport meraviglioso come il ciclismo.

Sabato mattina, forse meglio dire notte. Sveglia alle 3.45. Vado a far colazione e intanto studio gli altri ciclisti che hanno avuto questa fantastica idea. Ognuno ha il suo rituale alimentare. Io mi preoccupo di vedere come sono vestiti per la corsa. Il venerdì l’organizzazione ha mandato un messaggio avvisando che il sabato farà freddo e di equipaggiarsi con “vestiti caldi”. Bene. Se lo dicono i francesi che farà freddo, farà freddo sul serio.

Ore 4.45. Arrivo al Velodrome. Si parcheggia l’auto e inizia la processione al buio e led rossi fino al piazzale di raccolta degli autobus che ci porteranno alla partenza di Busigny.
Nell’attesa si scambia qualche parola. Sembriamo soldati in attesa dell’imbarco. I veterani che dispensano consigli alle spine: io ne trovo uno alla quarta Roubaix che dopo una serie di ragguagli tecnici su pressione dei pneumatici e tecnica di guida, dopo aver saputo che sì, sono alla mia prima Roubaix e che sì, non ho nemmeno fatto una prova sul pavè il giorno prima (dannato traffico di Bruxelles…) si limita a dirmi “Auguri”.

Sull’autobus scambio qualche parola con John, un inglese, anzi un londinese come ha tenuto a precisare, veterano pure lui. Poche chiacchiere. Tutti cercano di riposare. Davanti a me fanno colazione con pasta al forno. Tempo per digerire ne abbiamo: ci aspettano quasi due ore di viaggio. Provo a dormire anche io ma non ci riesco. Allora tanto vale guardare il panorama: anonima campagna. Il mio sguardo si alterna tra l’indicatore della temperatura esterna e le bucoliche pale eoliche: zero gradi e grande giramento di pale. Ci aspetta una fredda e ventosa passeggiata di salute nella campagna francese.

La partenza sembra una normale festa di paese: eccitazione, risate, orinatoi disseminati ovunque e qualche bella ragazza sotto lo striscione che scatta fotografie e si fa guardare. I primi chilometri vanno via lisci, si c’è sempre questo simpatico vento del nord che ci accompagnerà per tutta la giornata, ma ancora gestibile se sai agganciarti al gruppetto giusto.

Poi all’improvviso arriva il primo tratto di pavè: il numero 29. Troisvilles à Inchy. 0.9 Km. Due stelle. Lo affronto con rispetto, rigido sul manubrio per la paura. Il numero 29 ti fa capire subito cosa ti aspetta: botte, fatica, cattiveria. Dopo la prima curva questo dannato 29 ha pure la pretesa di buttarsi in discesa e come niente ti ritrovi a 35 km/h. Borracce che saltano come tappi di champagne: io che ho preso una bici a noleggio da dei pragmatici olandesi ho dei portaboraccia di alluminio, stretti a mano per non farsi scippare le borracce dalle pietre. Il 29 finisce. Arriva l’asfalto e ti dici: beh dai sono sopravvissuto. Non è poi così male. Devo ricordarmi solo di allentare la presa sul manubrio, lasciare che la bici si imbizzarrisca un po’, e continuare a menare sui pedali mantenendo sempre la stessa direzione.

Si perché una cosa il 29 te la insegna subito: per il pavè ci vuole cattiveria, devi pensare solo a te stesso. Ci sono due posti in cui stare sulle pietre: al centro o ai lati. In tutti gli altri posti prendi ancora più botte. Se qualcuno deve sorpassare, che si sposti. Se tu devi sorpassare prendi coraggio e esci dalle corsie, con tutti i rischi del caso.

I primi tratti di pietra passano via anche con piacere, ma arrivato al 23 ti chiedi chi diavolo te lo abbia fatto fare. Intorno a te sempre l’anonima campagna francese, intervallata da paesi e villaggi che esistono solo per questi due giorni, per poi scomparire per il resto dell’anno.

Sulla strada oltre a fare conoscenza con chi ha il tuo stesso passo, ti salutano tutti, perfino gli automobilisti in coda che aspettano che questi appassionati in lycra passino nelle strade che domani affronteranno quelli “veri”.

E poi all’orizzonte vedi stagliarsi nel cielo ventoso le torri della miniera con ai piedi tante macchie bianche: sono i camper dei tifosi che aspettano domenica, assiepati intorno alla Foresta. L’Aremberg o come dicono al Nord “Trouée d’Aremberg”. Cinque stelle. 2.4 Km. “Il settore di Pavè” per definizione. Il 19. Vieni catapultato in questo budello verde, ai lati le persone che ti applaudono e ti incitano. Inizi a ballare sulle pietre. E ti rendi conto di quanto siano dure e distanti tra loro. L’eccitazione sale e ci dai dentro al massimo delle forze, ma ogni pietra è un pugno che ti fa indietreggiare e ti rallenta. Cazzo se è dura. Arrivi alla fine stanco ma felice come un bambino.

La corsa continua. Il vento continua. E le gambe iniziano a parlarti. A tratti le senti urlare. Ma ti fai forza e diventi sordo. Qui la testa e il cuore contano molto più dei muscoli. Qui assapori quanto sia bello il ciclismo. Il ciclismo come la vita: devi fare fatica. Puoi cercare delle scorciatoie tra quelle pietre, le puoi anche sognare le scorciatoie. Ma alla fine le pietre le devi affrontare. Tu. Da solo. Qualcuno nel tragitto ti potrà dare una mano, una parola di conforto. Ma rimani sempre tu a far fatica.

L’ultimo ristoro diventa un miraggio. Ci arrivi e scopri quanto siano buone e dissetanti delle semplici fette di arancio. C’è di tutto ai ristori. Alimenti “tecnici”, gel e barrette energetiche, “spugne” al miele, non saprei come altro definire queste fette di torta, arance e banane. Ma soprattutto ritrovi gente stanca. Felice ma inesorabilmente stanca. Dai che è quasi fatta. Mancano solo gli ultimi 40 km. E nel mezzo l’ultimo tratto a cinque stelle, il Carrefour de l’Arbre. Il 4. 2.1 Km.

Al 5, 1.8 km, quattro stelle, senti che sei stato definitivamente accettato dalle pietre e dalle gente del nord. Una fila continua di camper e grill che costeggiano il Camphin-en-Pévèle. Ti incitano come fossi uno dei loro beniamini. Bandiere francesi, belghe, delle Fiandre, olandesi, ma soprattutto la voce e l’incitamento a tutti quelli che passano.

E poi ti avvicini alla fine. Arrivi a Roubaix, nel suo traffico che aumenta all’avvicinarsi al Velodromo. E poi ci entri al Velodromo. Sentire la pista liscia sotto le ruote è fantastico. Il paradiso alla fine dell’Inferno: “l’enfer du Nord mene au paradis”. Assapori ogni singolo metro e dimentichi le 8 ore in bicicletta. Cerchi di riempirti gli occhi e il cuore dell’emozione. Attraversi il traguardo. È fatta. Una medaglia al collo. Ed e già tutto finito.

Alzo lo sguardo e vedo Federica che mi raggiunge. Mi abbraccia e mi bacia. Probabilmente felice di vedermi sopravvissuto all’arrivo. Che moglie! Che asseconda un pazzo e lo accompagna nell’Inferno del Nord. Non la ringrazierò mai abbastanza per la pazienza di tutte le domeniche precedenti passate a mettere km nelle gambe.

La Roubaix è la Roubaix. E basta. Alla fine la maledici, ma il giorno seguente, nonostante il dolore alle gambe e alle mani, stai già ripensando di affrontare nuovamente l’Inferno.
 
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