la storia di Piccardo e la sua Mosè

predone bergamasco

Apprendista Scalatore
3 Maggio 2012
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Mozzo
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Nei primi anni ’50 frequentavo il liceo scientifico Vittorio Veneto di Milano; studiavo lo stretto necessario per essere promosso a giugno, aiutandomi, dove possibile, con i vari Bignami; distribuivo il mio tempo libero dedicandolo in minima parte, appunto, allo studio, in parte a corteggiare con scarso successo le ragazze oggetto di miei amori purtroppo solo platonici (arrossivo, e non avevo ancora ben acquisito le tecniche che miei coetanei, più esperti di me - almeno così si vantavano di essere - mi consigliavano); ma soprattutto, in parte preponderante, dedicavo il tempo alla mia grande passione di quell’epoca: la bicicletta da corsa.
Ricordo che uscivo alle 5 di ogni mattina per un giro di allenamento nei dintorni di Milano.
Percorso breve: strada Rivoltana fino a Rivolta d’Adda e ritorno, o Certosa di Pavia (una cinquantina di chilometri); percorso più impegnativo: Monza, Carate Brianza, salita di Monticello, Merate e ritorno passando da Arcore (allora non ancora assurta alle cronache mondane), una settantina di chilometri; iniziavo a gennaio con i pantaloni alla zuava, il giornale nelle scarpe perché proteggeva dal freddo meglio delle calze di lana, e il pignone fisso perché, si diceva, dava scioltezza alle gambe.
Ritornavo a casa in tempo per cambiarmi, lavarmi, e correre trafelato a scuola al Carrobbio.
Durante i fine settimana facevo lunghe gite, ed arrivavo a percorrere anche 350 km partendo alle 4 del mattino e rientrando alle 7 di sera.
Segnavo ogni giorno su un taccuino i chilometri, il percorso, e ogni notizia utile; il mio Vangelo era il manualetto "Prendi la bicicletta e vai" di Giuseppe Ambrosini, edito dalla Gazzetta dello Sport.
Ma la mia vera passione era la tecnica della bicicletta, del mezzo meccanico.
Se il manuale di Ambrosini era il mio Vangelo, la mia Bibbia era il libro "Tutta la bicicletta" dell’ing. Nanni, edizioni Lavagnolo, molto tecnico ed istruttivo.
Li ho conservati entrambi con cura fino ad oggi.
Ma procediamo con ordine.
Avevo 12 anni e con mia mamma e mio papà, che aveva una vecchia Topolino, la domenica si andava spesso in gita ai laghi per un pic-nic; lungo il percorso vedevo gruppi di ragazzi pedalare allegramente con maglie colorate e fiammanti biciclette da corsa; in particolare attiravano la mia attenzione le Legnano verde-ramarro, ed un giorno, a 13 anni, dopo un anno di desideri repressi, ho timidamente accennato a mio papà che mi sarebbe piaciuto possederne una.
Mia madre era di madrelingua tedesca, mio padre con lei spesso parlava in tedesco, lingua che conosceva molto bene, ed anch’io lo avevo studiato a scuola ma non mi piaceva parlarlo in casa, anzi, mi rifiutavo (forse perchè nel subconscio mi ricordava episodi spiacevoli vissuti negli anni dell’occupazione bellica).
Papà mi disse: se per un anno ininterrotto tu parlerai in casa solo tedesco, ti regalerò la Legnano da corsa.
Mio papà era un uomo saggio: per un anno ho parlato solo tedesco in famiglia (e lo ringrazio ancora per avermici "costretto" perché mi è stato utile nella vita), ed è arrivata la Legnano.
Era il 1950, avevo appena compiuto i 14 anni; eravamo andati a ritirarla nel negozio Emilio Bozzi di C.so Buenos Aires vicino a P.le Loreto: modello Roma, cambio Campagnolo Parigi-Roubaix con una sola leva.
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Ci avevo messo pochissimo ad imparare ad usarlo, pedalando all’indietro anche in salita (occorreva un certo slancio).
Con la Legnano avevo cominciato a fare lunghe gite: le strade che avevo percorso prima in Topolino con mio papà ora le percorrevo in bicicletta, arrancando e faticando per riuscire a restare nella scia (si diceva: "succhiare la ruota") di quei ragazzi più grandi di me con le maglie colorate.
Una prima grande soddisfazione era stata arrivare in cima al Ghisallo tutto in sella (non era ancora asfaltato) salendo dalla parte di Bellagio, la più ripida.
Mio zio Vittorio si era regalato un ciclomotore Vélo Solex (un lusso a quei tempi), e spesso mi accompagnava per allenarmi durante le gite; era piuttosto corpulento, pertanto mi tagliava molto bene l’aria, accelerando e rallentando a mia richiesta.
Con lui avevo un ottimo rapporto, ma purtroppo ci ha lasciati poco dopo a 43 anni, e mi è mancato molto.
Spesso andavo in bicicletta da Milano a Genova, dove pernottavo ospite dei miei zii Anna e Piero e delle mie cugine Marina e Silvia; per non appesantirmi durante il viaggio non portavo con me indumenti di ricambio, e cenavo con loro in tenuta da ciclista, ancora impolverato e sudato; zii e cugine arricciavano il naso e, timidamente, mi suggerivano, la volta successiva, di portarmi qualche capo di ricambio da indossare dopo una accurata doccia.
Con la mia paghetta avevo messo da parte i soldi per comprarmi la maglia verde-rossa Legnano, i pantaloncini con la pelle di daino sul soprassella e la scritta Legnano sui lati, e le scarpette con fissati sotto i "tappini", quelle piastrine scanalate di cuoio per bloccare i piedi sui pedali (ricordo uno slogan commerciale dell’epoca che recitava, in rima: "Col tappino Ricci vai al traguardo senza impicci"); così avevo potuto sentirmi alla pari dei ragazzi che incontravo durante le mie gite.
Mi recavo sempre, così agghindato, alla punzonatura e all’arrivo di tutte le corse (Giro d’Italia, Sanremo, Lombardia) per ammirare da vicino i campioni, in particolare quelli verde-ramarro e, soprattutto, le loro biciclette e quelle montate sulle auto del seguito.
Dai compagni di gite più informati avevo però saputo che le migliori biciclette, i migliori componenti, si potevano trovare in un negozietto di via Petrella, 4, dal Mosè.
Non mi dilungherò a spiegare chi fosse "il" Mosè: ho letto recentemente su internet, con commozione, un gustoso articolo del giornalista Gianni Bertoli dal titolo "Il negozio del Mosè" che lo ricorda esaurientemente, e che ha fatto rivivere in me le stesse sue esperienze di quel periodo; per chi fosse interessato: giannibertoli.it/S053.htm
La Legnano andava benissimo, ma il Campagnolo Parigi-Roubaix non era il massimo della comodità.
Così quando era uscito il Campagnolo Gran Sport a deragliatore l’avevo subito acquistato e montato sulla Legnano, con l’attacco mobile, con un nuovo bloccaggio, e allungando di qualche maglia la catena.
Avevo eseguito l’operazione da solo, senza esperienza, ma, provando e riprovando, ci ero riuscito abbastanza bene; però quell’attacco mobile disturbava il mio senso estetico.
Mosè mi aveva suggerito allora di andare da un certo Galmozzi, telaista in via Melchiorre Gioia, 67, a farmi saldare al forcellino l’attacco fisso per il Gran Sport.
Galmozzi me l’aveva saldato per poche lire, però col cannello mi aveva bruciato la vernice del forcellino, e la cosa aveva disturbato il mio senso estetico ancora più dell’attacco mobile.
L’anno successivo ero cresciuto parecchio di statura, e la Legnano mi stava un po’ piccola; così ero riuscito a vendere il mio telaio col forcellino bruciato ad un coetaneo più basso di me, e col ricavato, aggiungendo un po’ di paghetta risparmiata, avevo comprato un telaio Legnano tipo Roma nuovo, con forcellini cromati e attacco per il Gran Sport incorporato, telaio sul quale avevo poi personalmente montato tutti i componenti smontati da quello vecchio.
L’operazione di smontaggio e rimontaggio non era stata difficile perchè mi ero premunito acquistando, non ricordo dove, gli attrezzi minimi indispensabili per pedali, calotte, coni dei mozzi, catena.
Sulla Legnano con il nuovo telaio avevo percorso, l’anno successivo, parecchie migliaia di chilometri.
Sempre allenamenti mattutini prima della scuola, e gite domenicali.
Avevo ottenuto la tessera della Società Sportiva Aurora di Desio, tra gli allievi, previa visita medica dal Dr. Frattini, il medico dei campioni, che mi aveva trovato una "capacità vitale (polmonare) superiore alla media" e un "cuore ipertrofico sportivo", con mio grande orgoglio anche se non conoscevo bene il significato dei termini.
A questo punto mi ci voleva una bicicletta seria, fatta su misura.
Ero riuscito a vendere ad un ottimo prezzo la Legnano, e, tramite il solito Mosè, mi ero fatto costruire un telaio su misura, 59 cm, dal mago Galmozzi (allora era il migliore sulla piazza di Milano ed alta Italia, molto noto anche all’estero).
Avevo acquistato la componentistica dal Mosè, che mi aveva fatto un congruo sconto a condizione che avessi fatto verniciare il telaio con i suoi colori, evidenziando il suo marchio rispetto a quello di Galmozzi (relegato in una piccola decalcomania sul tubo piantone).
Avevo scelto io i migliori componenti, me li ero montati da solo (nel frattempo ero diventato un provetto meccanico, e possedevo tutta l’attrezzatura necessaria per montaggi e smontaggi quasi perfetti, operazioni che svolgevo nel cortile della mia casa di Via Bronzetti).
A fine 1951 avevo ordinato il telaio a Galmozzi, e all’inizio 1952 la bicicletta era pronta per nuove avventure.
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La custodivo gelosamente in camera da letto, e guai a chi me la toccava.
Trascorrevo molto tempo nel negozio del Mosè, in altri noti negozi di biciclette e accessori, e davanti alle vetrine della Bianchi in via Dante, dove venivano esposte, oltre alle ultime luccicanti biciclette in commercio, anche le biciclette infangate dei campioni, reduci dalle vittorie.
Sulla mia Mosè-Galmozzi avevo montato inizialmente una doppia moltiplica con pedivelle Magistroni, tra le migliori dell’epoca.
Ma nel negozio Bianchi di via Dante un giorno avevo visto esposta la bicicletta con cui Coppi aveva appena vinto il Tour 1952; e vi erano montate, per la prima volta in Italia, credo, il double-plateau (la doppia moltiplica, ma in francese faceva più professionale) in duralluminio marca TA (francese), con pedivelle Stronglight sempre in alluminio e sempre francesi, con innesto a perno quadro (oggi si chiamano "cotterless", senza chiavetta): una chicca, una primizia che non poteva mancare sulla mia bicicletta.
Vederle ed innamorarmene era stato un attimo, un "coup de foudre"; di colpo avevo dimenticato il mio amore platonico per la Lollobrigida, e avevo cominciato a sognarmele di notte e ad indagare se fossero in commercio anche in Italia.
Il Mosè ovviamente non le aveva ancora, e se non le aveva lui non poteva averle nessun altro; ma mi aveva indicato che probabilmente erano in vendita a Parigi in un negozietto ben fornito di Avenue de la Grande Armée, oltre l’Étoile.
Non ne ricordo il nome, ma a Parigi sembra fosse famoso e ben frequentato quanto il Mosè.
A scuola, oltre al tedesco e all’inglese, avevo studiato anche il francese e me la cavavo discretamente; mi ero procurato non ricordo come dei franchi francesi, un biglietto di 3.a classe andata e ritorno, e con una valigetta in cartone da emigrante ero partito alla sera in treno per Parigi; erano i primi mesi del 1953.
Arrivato di prima mattina alla Gâre de Lion, avevo preso la metropolitana fino alla prima fermata di Avenue de la Grande Armée, e lì avevo aspettato l’ora che il negozio aprisse (credo di non aver mangiato neppure un panino dal giorno prima).
Finalmente, alzata la saracinesca, ero potuto entrare, e avevo subito trovato ed acquistato quello che cercavo: una coppia di pedivelle Stronglight, con relativo perno quadro e due estrattori per lo smontaggio; due doppie moltipliche TA, una con dentatura 54-50, l’altra con dentatura 52-47, e già che c’ero anche una catena Brampton (si diceva fosse la migliore, usata da tutti i campioni francesi) che vendeva anche il Mosè, ma a prezzo quasi doppio.
Nella valigetta di cartone da emigrante avevo prudentemente messo qualche indumento nel quale avevo quindi accuratamente nascosto il malloppo; tornato in metrò alla Gâre de Lion, avevo preso il primo treno per Milano ed ero ripartito.
Sempre quasi digiuno, ma non volevo spendere troppo, ed avevo fretta di ritornare per procedere al montaggio.
Neanche un salto a Pigalle dove si diceva si potessero trovare anche di giorno bellissime ragazze facili a tariffe vantaggiose; per questa mia "omissione" ero stato poi preso in giro per almeno un paio d’anni dagli amici, secondo i quali preferivo le biciclette alle ragazze: illazioni che, negli anni successivi, ho inequivocabilmente smentito con i fatti!
Al passaggio della dogana avevo tenuto un atteggiamento "nonchalant", facendo finta di leggere qualcosa: era vietata l’importazione di materiale non dichiarato; comunque i doganieri debbono aver pensato che un ragazzino non potesse essere un contrabbandiere, pertanto non mi avevano fatto aprire la valigia di cartone, ed erano passati nello scompartimento successivo.
Il cuore mi batteva forte per la paura, quindi, cessato il pericolo, mi ero accasciato sul sedile con un respiro di sollievo; avevo 17 anni.
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Negli anni successivi, con la Mosè su cui facevano bella mostra le pedivelle e il double-plateau in duralluminio, ho percorso decine di migliaia di chilometri, sono salito sui più noti passi dolomitici (uno per tutti: lo Stelvio dalla parte di Merano, allora non ancora asfaltato, in una gelida giornata piovosa), ho partecipato a qualche gara con la maglia blu-arancione dell’Aurora di Desio.
I passi dolomitici li avevo scalati durante un giro di una quindicina di giorni, oltre 2000 chilometri, con i miei amici Gustavo detto Titti,Giorgio detto Jonathan e Franco detto Franchino; potrei ricordare qualche episodio divertente, come il parroco di Dobbiamo al quale ci eravamo rivolti, in italiano, per farci indicare una locanda economica, e lui, dopo averci fatto attendere una buona mezz’oretta per raccogliere qualcosa presso i suoi parrocchiani, è ritornato offrendoci inaspettatamente una manciata di lire per poterci pagare la cena e il pernottamento: evidentemente capiva solo il tedesco e aveva frainteso la nostra richiesta; abbiamo ringraziato e rifiutato cortesemente, e siamo andati a dormire in un fienile abbandonato, tra pulci e pipistrelli.
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E ricordo divertito, ma con una certa nostalgia, un episodio che precedette la mia prima corsa, per la quale mi ero allenato coscienziosamente per non sfigurare di fronte ad un pubblico che tifava per me.
Avevo un flirt con una ragazza, e uscivamo tutte le sere per scambiarci qualche bacio sotto i lampioni (eravamo nella fase…propedeutica).
La sera prima della corsa volevo andare presto a dormire, ma senza rinunciare a qualche ulteriore "avance" con la fanciulla (a quell’epoca le "avances" sortivano effetti molto lenti e limitati).
Pertanto mi ero messo in tasca una piccola sveglia caricata per le 10 di sera, ci eravamo seduti su una panchina nella penombra, e, sul più bello, lo squillare della ritirata aveva interrotto l’incanto, con disappunto di entrambi, ma avevo dovuto sottostare al richiamo del dovere…"ubi maior –amor- minor cessat"!
Il giorno dopo, in gara, ero partito a razzo (era un circuito cittadino, con una salita ripida che stroncava le gambe, da ripetersi una trentina di volte), ma a tre quarti di corsa mi ero dovuto ritirare per un crampo al polpaccio, mentre ero nel gruppo di testa, perché un tifoso mi aveva gettato un secchio di acqua gelida sui muscoli caldi: la rinuncia della sera prima non era servita a niente, tanto sarebbe valso che avessi ignorato la sveglia e concluso meglio la serata; forse avrei potuto conquistare qualche centimetro in più (giovani di oggi, se non vi è chiaro il concetto chiedete a vostro nonno!).
Con l’Aurora di Desio avevo poi partecipato ad alcune altre corse tra gli allievi, ma senza grande successo, e me ne sono fatto una ragione.
In effetti mio papà lo aveva previsto fin dall’inizio che lo studentello educato, non ancora abituato a sgomitare con metodi anche poco ortodossi, avrebbe incontrato qualche difficoltà nell’ambiente: "vedrai quando ti troverai in mezzo a quei gentiluomini… " mi diceva; non era classista, ma realista.
Aveva visto giusto, ed ho abbandonato le corse; ma l’amore per la bicicletta non è venuto meno.
Al quinto anno di liceo però, dovendomi preparare più seriamente per la maturità scientifica (che ho poi superato a giugno con una buona media, anche qui i Bignami mi sono venuti in soccorso consentendomi di rimediare 7/10 anche in storia e in filosofia, materie per cui ero palesemente negato), ho praticamente appeso al chiodo la bicicletta da corsa; in seguito la mia passione per la meccanica, nata dallo smanettare con biciclette, estrattori e cacciaviti, mi ha reso d’obbligo la scelta degli studi da intraprendere: mi sono iscritto al Politecnico di Milano, dove mi sono laureato in ingegneria meccanica; quindi: grazie, bicicletta!
Sono passati più di 50 anni.
Negli ultimi tempi ho avuto ancora occasione di occuparmi delle due ruote.
Mi sono dilettato per anni a recuperare dal rottame vecchi esemplari d’epoca con freni a bacchetta, per rimetterli perfettamente in sesto meccanicamente.
Ho anche progettato e costruito biciclette elettriche a livello hobbistico, pubblicando alcune monografie tecniche sull’argomento.
Ma queste sono storie più recenti.
Oggi, a 75 anni, continuo a pedalare (non sulla Mosè per problemi alla schiena, ma su due vecchie e rare Umberto Dei del 1940, più adatte alla mia età, tutte originali e perfettamente conservate, con freni a bacchetta e cambio a deragliatore Fichtel & Sachs prima serie sull’una, Sturmey-Archer a 2 velocità - modello TF, una rarità - sull’altra); brevi percorsi a Milano e dintorni, o a Garessio in quel di Cuneo, dove trascorro più di due mesi all’anno.
Ma la Mosè è ancora lì, affascinante signora sessantenne molto ben conservata, niente cellulite, niente lifting o silicone; solo poche rughe attorno agli occhi che la rendono ancora più intrigante.