Il ciclismo dei professionisti non era poi tanto pulito neppure nelle epoche che hanno preceduto il dominio di Armstrong. È sempre stato uno sport sleale, una mera lotta di sopravvivenza, la storia è piena di esempi: agli inizi del novecento alcuni concorrenti avevano dei compari che danneggiavano volutamente gli avversari, si andava dai cocci di vetro sul selciato a vere e proprie aggressioni; il "diavolo rosso" Giovanni Gerbi fu squalificato perché convinse un casellante a tirar giù la sbarra al passaggio del suo rivale di giornata. Anquetil considerava i controlli antidoping come un'intollerabile violazione della privacy; si potrebbe fare un elenco di campionissimi infangati dal doping, alcuni solo per sospetto, altri che hanno scontato squalifiche e sono tornati a vincere.
Veniamo ad Armstrong.
Il caso Armstrong, sul quale già si agitavano sospetti da tempo, realmente esplode dopo il suo ritiro e il suo ritorno alle gare e giunge soprattutto al termine di un decennio abbondante nel quale le magistrature iraliane e francesi si sostituiscono all'antidoping, nel quale si susseguono indagini che scoperchiano un universo sgradevole, fatto di aghi e sacche di sangue, di auto piene di farmaci e ciclisti che pedalano alle due di notte. Tale spettacolo fa mutare radicalmente la percezione del grande pubblico: il sorrisetto che accompagna la frase 'tanto son tutti dopati" si trasforma in insofferenza, diventa una smorfia schifata, si corre il rischio che gli appassionati scappino, addirittura lo scandalo festina convince la TV tedesca ad interrompere le dirette. Si rischiava insomma che il giocattolo si rompesse, o meglio, di ciò si andavano persuadendo alcuni addetti ai lavori. Inizia l'epoca dei protocolli, delle punizioni esemplari, anche retroattive. Armstrong, dopatissimo, anzi il doping fatto uomo, è lo spartiacque, o meglio avrebbe dovuto esserlo, una specie di linea di demarcazione tra il prima e il dopo: prima il sangue, i frigoriferi portatili e le centrifughe, dopo il ciclismo pulito; si pensava che, grazie alla pena inflitta al texano, si potesse ricominciare a parlare di eroi del ciclismo, di giganti del pedale. Ora, io non credo che tutto sia sporca politica, che l'unica motivazione sia il denaro, io credo che negli ultimi vent'anni si sia agito sia per salvaguardare il business sia per amore del ciclismo: da una parte si è cercato di trattenere gli investitori, dall'altra molti hanno creduto che i mali endemici dei corridori, su cui, sia chiaro, parecchi lucrano, stavano distruggendo il ciclismo e si doveva porre rimedio.
Parere personale:
Credo che sia inutile cercare di attribuire un valore sportivo al ciclista Armstrong: per stravincere ha messo in essere un tale baraccone che ogni analisi del gesto atletico perde di senso. Non conosciamo ne mai conosceremo il suo reale valore e neppure sappiamo il reale valore degli avversari. Trovo allora altrettanto fuorviante sostenere che anche i suoi avversari evidentemente avevano messo in piedi un loro baraccone personale (nessuno può negarlo) e per questo motivo lui induscusso resta "il più forte", "il più tenace", "il piu dotato", "quello con la testa del campione" ed altre considerazioni del genere che ogni tanto sento e leggo.
Il vuoto nell'albo d'oro del Tour rappresenta proprio l'impossibilità di attribuire un reale valore a quelle competizioni e non semplicemente l'incapacità di trovare un corridore al quale assegnare la vittoria.
Concludo: Lance Armstrong quando vinceva, quando era il re, è stato un uomo di un'antipatia, presunzione ed arroganza fuori dal comune, questo non gli giova nel giudizio che oggi gli appassionati danno di lui.