L’alimentazione del ciclista eroico

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L’alimentazione è stata sempre un argomento centrale nel ciclismo e lo è tutt’oggi, basti vedere le animate discussioni quotidiane riguardanti i vari tipi di diete e integratori. L’alimentazione è stata centrale anche agli albori del ciclismo, e circa per gli stessi motivi: fornire la necessaria benzina per affrontare ore in sella, ma senza appesantirsi o andare in crisi.

La “crisi di fame” è una di quelle cose che ogni ciclista, che sia il vincitore del Tour de France come l’ultimo degli amatori, ha provato almeno una volta nella vita. In Francia, la culla delle prime gare ciclistiche, è chiamata la fringale, e questo termine è stato utilizzato anche in Italia sino agli anni ’30, anche nella stampa. Le cronache degli anni “eroici” sono piene di fringales, e fondamentalmente cause ed effetti erano gli stessi per gli amatori di oggi: mangiare troppo, troppo poco (più frequente), problemi di stomaco per aver mangiato le cose sbagliate, digestioni lente o bloccate dal freddo.

Per i professionisti oggi è completamente diverso. Ammiraglie e soigneurs vari riforniscono costantemente i corridori di barrette, snack, bevande, il tutto confezionato secondo scienza della nutrizione, con macronutrienti bilanciati al grammo. D’altronde l’alimentazione e nutrizione oggi è un’industria da miliardi di fatturato. I corridori mangiano ad intervalli regolari, dettati da Training Stress Score o KiloJoule spesi e misurati da powermeter. Persino l’idratazione è calibrata al millilitro, previo test in cui viene analizzata la quantità di sudore a varie intensità e durate di esercizio ed ovviamente la concentrazione dei sali minerali persi. Appena tornati dall’allenamento o dalla gara gli atleti vengono non rifocillati, ma “integrati” ancora con pietanze (chiamiamole cosi) preparate da nutrizionisti-chef. Ormai nessuno ride più dei baslotti di riso bollito e succo di barbabietola che un Froome ingurgita prima di dare qualunque intervista a fine tappa.

Chi fa atletica leggera o qualunque altro sport fa lo stesso ad alto livello. È l’evoluzione naturale delle cose.

Ai tempi del ciclismo eroico ovviamente queste conoscenze non c’erano, era tutto fatto “a sensazione” e passaparola, ma soprattutto uno dei problemi maggiori era proprio reperire il cibo in corsa. Ai primi Tour de France, a dispetto delle classiche, i corridori non avevano diritto ad assistenza, che fosse meccanica o altro. Dovevano essere autosufficienti dalla partenza al traguardo. Partenze che avvenivano quasi sempre di notte per massimizzare le ore di luce in vista di tappe mediamente di 350km, ma che potevano superare abbondantemente i 400km. Il paesaggio è noto: strade non asfaltate, piccoli villaggi da attraversare dove il concetto di 7/7-h24 era lungi dal nascere. Cosi come erano lungi dal nascere i cibi “impachettati”. François Faber, vincitore del Tour 1909, Lombardia 1908 e Roubaix 1913 partiva con sempre con almeno 12 cotolette in tasca….

Barretta vintage

L’unica fonte di proteine col packaging erano le uova. Le uova sono state per decenni il cibo preferito in corsa dai ciclisti. All’epoca le maglie avevano una grande (o due) tasca sulla parte anteriore, sul petto. I ciclisti ci infilavano le uova, poi all’abbisogna le rompevano con un colpetto sul manubrio, buttavano via l’albume e si bevevano il tuorlo. Questa operazione, fatta con maestria a qualunque velocità, definiva il corridore esperto rispetto il neofita. L’albume ed il guscio erano espressamente tirati al ciucciaruote dietro o agli avversari.

Per i pistard invece era la pacchia. Alla fine dell’800 le gare su pista erano IL ciclismo. Capaci di riempire interi stadi, in particolare per le corse di mezzo fondo, quelle dei folli stayer, che giravano a 80km/h dietro motociclette infernali per spesso cadere e morire. Sino alle gare di durata, che facevano da contorno a riunioni in società, tra banchetti e aperitivi. In pista il cibo era abbonante e di qualità.

Sul «Le Vélo, le journal quotidien de la vélocipédie» del 5 febbraio 1895, si può leggere il resoconto della “24 heures de Paris des Arts libéraux”, gara appunto di 24h su pista. La corsa si svolse agli Champs-des Mars, la piana dove oggi si trova la Tour Eiffel a Parigi (la quale sarebbe stata iniziata due anni dopo), all’aperto.

La corsa si svolgeva come quasi tutte le corse dell’epoca dietro entraineurs (allenatori), ovvero tandem o triplette (tandem a 3 posti).

Questa corsa è rimasta famosa negli annali perché fu la prima vittoria da professionista di Maurice Garin, il futuro vincitore del primo Tour de France nel 1903. Garin all’epoca era ancora italiano, diventò francese nel 1901 e faceva ancora il mestiere che gli valse il soprannome da corridore: il piccolo spazzacamino.

Maurice Garin alla partenza della Paris-Brest-Paris 1901. In primo piano il suo allenatore, Charles Terront, vincitore della prima edizione della PBP

La corsa fu ovviamente assurda: con un freddo bestiale, all’aperto, i corridori si ritirarono uno dopo l’altro. Garin vinse percorrendo 701km nelle 24h con 49km di vantaggio sull’unico altro corridore rimasto in gara, l’inglese Williams.

L’exploit di Garin all’epoca gli valse grandi complimenti, in particolare facendo nascere l’espressione “corridore con testa e gambe”, con cui venne descritto su Le Vélo. Che avesse gambe era evidente, ma che avesse avuto testa è dovuto al fatto che il piccolo spazzacamino evitò di bere durante la gara il “gros rouge“, lo spesso vinaccio rosso che all’epoca tutti i ciclisti ingurgitavano per darsi la carica.

In compenso, su Le Vélo viene descritto cosa mangiò Garin durante le 24h:

“19 litri di cioccolato caldo, 7 litri di thé, 8 uova di madeira, 1 tazza di caffé con acquavite di champagne, 45 cotolette, 5 litri di tapioca, 2kg di riso al latte e delle ostriche”.

Per uno alto 162cm per 60kg più che di alimentazione si può parlare di Guinness dei primati…

Di Garin esiste la cronaca di un altro exploit mangereccio da record. Al primo Tour de France, nel 1903, dopo la prima tappa, Parigi-Lione, 467km, vinta proprio da Garin in 17h45’13” con 55″ di vantaggio su Emile Pagie, Garin si buttò subito in branda e dormì 14h filate (tra ogni tappa c’erano 3-4 giorni di riposo).

Al risveglio il nostro eroe si mangiò “due polli, tre bistecche, una omelette di 20 uova, 12 banane e bevette 2lt di vino rosso”. Immaginiamo che a questo sia seguita adeguata siesta…

Se si immagina che Garin fosse un prodigio isolato si cade in errore. Louis Trousselier, vincitore del Tour de France 1905 e della Paris-Roubaix dello stesso anno, famoso per essere arrogante ed attaccabrighe, oltre che grande giocatore d’azzardo (si giocò, perdendo tutto, il premio in denaro del Tour vinto la sera stessa dell’arrivo a Parigi) era noto per integrare dopo gli allenamenti lunghi con 3lt di rosso. Il suo motto era: “In bici bisogna saper spingere, saper mangiare, saper bere”.

Trousselier nel 1911

E Trousselier sapeva il fatto suo. Durante la Bordeaux-Paris del 1914, ultima sua gara importante da professionista (finì 4° in un’edizione rocambolesca) si mangiò : “50 cotolette, 3kg di torta di riso, 20 tortine e ad ogni rifornimento 2 borracce di limonata”.

Se venisse il dubbio che, di fatto, i ciclisti all’epoca corressero spesso quasi sbronzi, non è del tutto infondato. Un corridore noto per bersi quantità apocalittiche di vino in corsa era Émile Georget, vincitore di 2 Bordeaux-Paris, una PBP, due volte 3° al Tour de France (1907-1911) e piazzato in varie altre corse (2° Milano-Sanremo 1909), famoso per essere stato il primo corridore della storia a scollinare in corsa il Galibier al Tour 1911. Georget era soprannominato le Brutal, per gli effetti che l’alcol aveva sui suoi comportamenti…

Brutale

Con gli anni ’20 le cose cambiarono, cominciarono ad apparire i primi manuali di alimentazione, e certi eccessi non si ripeterono più, anche se l’alcol ad esempio rimase sempre in voga, oltre a vari miscugli dopanti.

Robert Jaquinot si rifocilla durante la 5^tappa del Tour 1922. Il giorno precedente aveva perso la maglia gialla proprio a causa di una sosta troppo lunga a favore di Eugéne Christophe

 

Nemmeno Eugéne Christophe faceva prigionieri a tavola

Nel secondo dopoguerra si entrò nell’era moderna e le cose diventarono molto più scientifiche, anche se sulle tavole serali di Coppi e Anquetil non mancava mai birra e champagne. Ed anche in corsa certe abitudini non morirono, come quella di Gino Bartali di allungare i rifornimenti con il “certosino”, il tipico liquore dei frati della Certosa “che dava forza e purificava il fegato”. E convinto il ginettaccio…

Adorni, Motta, Anquetil e Gimondi scherzano con un piatto di spaghetti al Giro 1966

 

Gastone Nencini, fumatore incallito e buona forchetta

Commenti

  1. rapportoagile:

    Ho partecipato a 3 edizioni dell'Eroica tanti anni fa, e in una di queste ad un ristoro offrivano la Ribollita, cotta su un paiolo sorretto da 3 pali di legno; gli addetti erano vestiti d'epoca: tutto molto bucolico! Può un altoatesino rinunciare ad un piatto di ribollita in terra toscana?? Certo che no!
    Mentre la stavo gustando seduto su un muretto, un ciclista "veramente eroico", ad occhio e croce 80enne, e Toscano DOC, con la divisa della Bianchi in lana, caschetto in cuoio e il tubolare attorcigliato intorno alle spalle, mi si avvicina e mi dice:" O tu te 'un la fai miha la salita dopo la ribohllita" (mi scusino gli amici toscani per lo scimmiottamento della loro parlata). Gli ho sorriso, ma ho pensato :"..e questo che vuole?".
    Evidentemente il nonnetto era del posto e conosceva il percorso. Appena ripartito, uscito dal paesino mi son trovato davanti una salita di un paio di km, ovviamente sterrata, al 10/12%. Son dovuto scendere e spingere, con la ribollita che andava su e giù nello stomaco.
    Ribollita e vino rosso! E poi il Sante Marie (che non è 12 ma 18%!) vengono su dei ruttini.... :ola:
  2. Caxxo... dovrei commentare qualcosa, se non altro per fare onore al mio nickname. Certamente l'esagerazione fa parte della cronaca giornalistica dell'epoca, certi numeri, semplicemente, non sono credibili. Sull'assunzione di vino durante l'attività sportiva, il mio medico personale (mio figlio) esprime cmq un totale disaccordo...e a me tocca ascoltare, se no mi cazzia!
  3. golias:

    Quindi il detto: un bicchiere di rosso al giorno leva il medico di torno.. farebbe parte delle leggende metropolitane ?
    Il detto (a me tra l'altro i proverbi infastidiscono) sarebbe "una mela al giorno". Quella del bicchiere di vino rosso è una delle tante favolette italiane ("eh ma i polifenoli!" "ah, il Belpaese!" "italiani, brava gente") che, introdotte per ovvi motivi culturali e di interesse, il nostro giornalismo becero ci propina da decenni.
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