La tappa regina del Giro ed il futuro del ciclismo

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È lo stesso Mauro Vegni, direttore del Giro d’Italia, a mettere la questione sul tavolo: “Lasciamo finire questo Giro e poi apriamo un dibattito su dove stia andando il ciclismo oggi. Sarei contento di prendervi parte. L’UCI…le regole sbagliate…il ciclismo ha bisogno di essere rifondato. Mi fermo qui“.

Il dibattito è stato molto caldo, al contrario della giornata, anche in televisione, con Vegni incalzato dalla De Stefano.

La tanto attesa tappa regina, quella con la Cima Coppi, coi mitici tre passi alpini, con 212km ed i 5700mt di dislivello (che ne avrebbero fatto la terza tappa con più dislivello della storia del Giro) con il suo carico della retorica intrinseca al ciclismo, sport di “eroi”, “gladiatori”, “di sport vero che non è un gioco”, sofferenza, etc.etc.. si è risolta in una tappa accorciata a 155km con il solo Giau mantenuto sul Menù. Il tutto condito in salsa assenza di immagini per via del maltempo che ha fatto imbufalire non pochi telespettatori nel mondo.

Un disastro tale per cui il ciclismo vada rifondato come dice Vegni? Tutto sommato sembra molto esagerato, in fondo la tappa è stata accorciata per preservare la sicurezza dei corridori, cosa sacrosanta e che deve venire certamente prima della retorica stantia; e per le immagini mancanti ce la si può forse prendere con la RAI, ma anche no, inutile entrare in un dibattito da antennisti o esperti di ponti radio.

La questione però si annida nelle parole e nelle espressioni di Vegni, che ha cercato come ha potuto di fare veramente da mediatore in una situazione che, per il secondo anno di fila, gli stava sfuggendo di mano. L’accorciamento della tappa è arrivato in modo tutt’altro che sereno e ponderato, ma per quello che sembra essere l’ennesimo braccio di ferro tra corridori e organizzatori. Si accorcia, si, no, noi vogliamo correrla, noi volevamo correrla, piove, si, no, nevica, il ghiaccio…alla fine la tappa è stata accorciata, ma in un modo confuso e con un palese scontro tra organizzatori e corridori.

Veniamo ai fatti: la tappa sulla carta era già durissima e arrivava dopo giorni altrettanto duri, con il maltempo che flagella il Giro dall’inizio e tappe che sono rimaste nelle gambe, come quella delle Strade Bianche. Ieri pioveva e si preannunciavano per i corridori almeno un 7h sotto la pioggia, con ancora 1/3 di Giro da fare. Il protocollo “condizioni estreme” dell’UCI non è stato attivato però, semplicemente perché non c’erano le condizioni per farlo: le temperature erano sopra lo zero anche sui passi, non c’era neve a terra, tantomeno ghiaccio. Sull’inquinamento atmosferico (altro fattore che lo può far scattare) passiamo.

Restano inoltre sul piatto altre domande: perché togliere due passi e lasciarne un terzo praticamente alla stessa altitudine (il Giau è 3mt meno del Pordoi). Perché la discesa del Giau è stata giudicata meno pericolosa di quella degli altri due passi? (tra l’altro, le discese corte si, ma molto tecniche e sul ghiaino bagnato attorno Montalcino nell’11^tappa erano meno pericolose?). Discesa che poi i corridori hanno fatto senza risparmiarsi*.
Alla fine Vegni, saggiamente, ha commentato nel modo più corretto: “Abbiamo deciso che fosse più importante avere una tappa corta ed intensa che il dover affrontare una situazione complessa“.
Parole che poi sono state contorte più volte in varie altre dichiarazioni, come sui “corridori che cambiano idea ogni 5 minuti”. Corridori che in effetti tirano il sasso e nascondono la mano, tutti compatti a telecamere accese a dire che la tappa s’ha da fare tutta, ma poi la tappa tutta non si fa…mentre la loro associazione si intesta ufficialmente che l’organizzazione ha recepito la loro richiesta di accorciarla:


Vegni sembra insomma aver mandato giù un boccone amaro, riuscendo ad imporre che fosse “gara vera” (sottinteso: non come quella di Morbegno 2020) e che almeno si arrivasse a Cortina (per evitare autorità locali inferocite immaginiamo). E soprattutto evitare un altro “caso Morbegno” a telecamere accese, quella protesta dell’ultimo minuto che è ancora una ferita aperta.

Andy Hampsten sul Gavia nel 1988

La questione quindi non è Pordoi si/no, ma capire chi decide cosa. E come. Questi cambi di programma improvvisati sono deleteri per tutti, anche per i corridori, che si inimicano gran parte del pubblico, ed è inutile che poi facciano i piccati sui social come unici depositari dello spirito ciclistico, soprattutto se poi si trovano le foto degli amatori in bici sotto il cartello del Pordoi scattate 2h prima del loro ipotetico passaggio. E soprattutto perché questo crea una frattura con la tradizione con cui loro stessi sono cresciuti e si sono nutriti. E questo non vuol dire cullarsi sulla trita retorica “dell’era sempre meglio prima”, tirando fuori gli immancabili Gaul sul Bondone e Hampsten sul Gavia, ma il ciclismo è anche e soprattutto quella roba lì. E la prova è che appunto se ne parla 50 o 30 anni dopo.

Graziano Battistini sul Bondone al Giro 1956

Tra 30 anni si parlerà della tappa accorciata di ieri? In positivo o in negativo? Bernal (ieri stratosferico) poteva entrare nella leggenda futura magari non come Hampsten coperto di neve, ma circa. Invece oggi se ne parla più che altro per il  (seppur bel) gesto del togliersi la mantellina per far vedere con orgoglio la maglia rosa al traguardo.

Quindi la questione posta da Vegni deve essere realmente affrontata: cosa si vuole fare del ciclismo? Cosa deve diventare?
Posto che il ciclismo si è evoluto e si evolve dal giorno in cui ha visto la luce, occorre che gli interessati si mettano ad un tavolo e ne discutano seriamente. Mentre ora l’impressione è che i corridori cerchino di sottecchi di conquistare quel peso che, ingiustamente, non hanno mai avuto, ma in modo disordinato ed anche un po’ ipocrita, senza mai un’unanimità, un portavoce unico e condiviso. Gli organizzatori sono disorientati, e probabilmente sorpresi di doversi trovare a mediare tra esigenze di business sempre più elevate e stringenti e imprevisti su cui vengono un po’ ricattati. E con in mezzo le squadre che non si espongono minimamente, lasciando fare ai corridori, come non fossero affari loro (o come se gli affari loro fossero altri).

Team Manager e CEO della Bora Hansgrohe in gita sul Giau

Idem l’UCI, trincerandosi dietro un balletto ridicolo di regole tolte/messe in base agli umori di chi alza di più la voce invece che secondo riflessioni serie e condivise da tutti.

Quindi siamo d’accordo con Vegni: facciamo finire questo Giro d’Italia, ma poi che ci sia una seria discussione su dove far andare il ciclismo.

Questi i tempi della discesa dal Giau di ieri su Strava. Kudos a Romain Bardet che è sceso sul bagnato come un missile. Da notare i 266w medi di Damiano Caruso contro i 100w e qualcosa in meno circa della maggior parte degli altri. Segno che ogni uscita di curva è stata uno sprint per il bravo siciliano

Commenti

  1. bicilook:

    Si quel giorno sono stati dei bambini dell'asilo...una tappa piatta con temperature da 8 a 15 gradi ridotta a una corsetta in linea perchè i corridori fanno i capricci perchè piove.
    Fa strano che i più anziani del gruppo non abbiano alzato la voce e abbiano invitato tutti a salire in bici e non rompere le palle.
    Allora lo facciamo solo su pista il ciclismo e su strada non si va più perchè forse potrebbe piovere o far freddo.
    Ora, come nel 2020, non c'è stato il coraggio di ricordare ai pro che è un lavoro il loro e se si vuole guadagnare la pagnotta, quello devono fare.
  2. j-axl:

    Si, aspettiamo che il giro finisca poi....il nulla come lo scorso anno.
    Mi quoto....quindi finito il giro? Cosa diceva?
    Ahhh, non è successo nulla?
    Strano.
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