Negli ultimi 10 anni il ciclismo sembra sia entrato nel programma centrifuga, scombinando tutti una lunga serie di regole e consuetudini di questo sport. Innanzitutto cercando di lasciarsi alle spalle le decadi del doping, prima selvaggio e massiccio, poi scaltro e microdosato. Che ci sia riuscito è un tema che potrebbe occupare migliaia di pagine di commenti in una infinita discussione. Il tempo ci dirà, ma tant’è, molte cose sono cambiate a vista d’occhio.
Tra amori ed odi profondi il ciclismo si è professionalizzato: fuori l’amico dell’amico, il meccanico/biomeccanico, gli oscuri stregoni di provincia e la gavetta fatta di prove ed errori. Oggi il ciclismo è roba per esperti veri, con master e PhD. L’improvvisazione è messa alla porta.
La nutrizione ad esempio è diventata argomento serio ed i consigli della nonna banditi. Tipo farsi 6h di bici con sola acqua per benzina e mangiando solo una fetta di anguria alla fine per raggiungere il “peso gara” è una di quelle frasi ad effetto dei tempi andati, ma ora è semplicemente una cosa indigeribile per la comunità ciclistica, tanto che l’insurrezione social ha fatto cestinare rapidamente una borraccia proposta da un noto marchio inglese che riportava proprio la frase incriminata.
Le boutade ormai hanno vita breve, perché oggi c’è una nuova consapevolezza, data dall’infinità di informazioni e materiale reperibile sul web. Ovviamente come ogni argomento molto dibattuto ed è anche estremamente divisivo, con Low-carbisti e High-fattisti (e tutte le correnti assortite in mezzo) a battagliare ferocemente su un Piave di albumi e Whey.
Ma dietro il sipario del teatrino social c’è anche una realtà fatta di disordini alimentari veri, come hanno recentemente testimoniato corridori come Janez Brajkovič, ma anche Davide Cimolai, il quale ha raccontato che il non saper come alimentarsi gli abbia fatto buttare 2 anni di carriera. Un problema che sembra proprio della generazione dei nati fine anni ’80-inizio ’90. Una generazione forse stretta tra i retaggi delle decadi precedenti e il cambio di passo imposto dall’entrata in scena del ciclismo (sempre più) scientifico.
Altro grande argomento (e annessa diatriba) è quella relativa all’utilizzo massiccio, ed oggi imprescindibile, dei misuratori di potenza. Sempre la generazione dei nati nei primi anni’90 sembra essere quella che ne ha patito di più l’entrata in scena. Il loro utilizzo ai fini dell’allenamento e della prestazione non è poi cosi semplice, se usato con cognizione, e spesso uno degli errori del fai-da-te o del sentito dire è “seguire i numeretti per i numeretti”. Tanto che non più di 6 anni fa un Vincenzo Nibali ammetteva di coprire con lo scotch il campo della potenza sul computerino in gara per non farsi condizionare in qualche modo.
Tutta la vecchia generazione è stata subito molto scettica sull’utilizzo dei powermeter, in particolare “in gara”, concedendogli magnanimamente un’utilità in allenamento. Ma dando prova di non avere le idee chiare in merito più che altro. A dar manforte a questa visione il grande pubblico amatoriale, addirittura assertivo nel chiedere che i misuratori di potenza venissero banditi in gara. Soli responsabili del ciclismo “robotico”; questo ciclismo noioso e prevedibile, “con gli scattini all’ultimo km e basta”; senza fughe e senz’anima, per pescare nel lirico che piace tanto agli amanti del ciclismo neo-retrò, quello del “era sempre meglio prima” che spopola oggigiorno.
Ed in questi discorsi si sente quasi l’eco del nonno che si scaglia contro internet o i cellulari, mentre catechizza su Skype i nipotini. Nipotini che non si pongono il problema e vivono il loro tempo senza complessi. E cosi si è arrivati al ciclismo dei ragazzini terribili (o semplicemente consapevoli) degli ultimi anni, dei Bernal, Pogačar, Evenepoel, Pidcock e poco più grandi, di “quelli del ciclocross”: MvdP e Van Aert.
Ed ecco che il consolidato va a farsi benedire. Moreno Argentin e Philippe Gilbert, 5 Liegi in due, chiosavano qualche anno fa, che per vincere la Liegi “serve esperienza”. E…taaac! Tadej Pogačar vince la Liegi a 22 anni, con una volata da veterano scafato, ciurlando un Valverde che potrebbe essere suo padre, e le Liegi non si può dire che non sappia come si fa a vincerle.
Pogačar si colloca al 12° posto dei più giovani vincitori della Liegi, ma se si va a vedere chi sono gli 11 più in alto di lui in classifica si vede che le vittorie sono arrivate (in ordine dall’11° al 1°) nel: 1963, 1977, 1965, 1929, 1911, 1908, 1968, 1927, 1928, 1909 e 1913. Ma persino nei primi 25 l’unico rappresentante degli anni ’80 è Steven Rooks (1983). Anni ’90 e 2000 non pervenuti.
In compenso se si va a guardare i più vecchi vincitori la situazione si ribalta, con nei primi 25 una netta maggioranza di corridori degli anni ’80-’90-2000. Con in testa Alejandro Valverde e Alexandre Vinokourov che compaiono 2 volte ciascuno, nonché in testa alla classifica. E poi i vari Rebellin, Di Luca, Hamilton, Fuglsang, Gerrans, Gianetti, Iglinsky.
Stesso discorso per la regina di tutte le corse, il Tour de France, con Pogačar e Bernal che nelle ultime due edizioni si sono posti al 2° e 4° posto tra i più giovani vincitori di ogni tempo della Grande Boucle. Con lo sloveno che è battuto solo da Henri Cornet, che ha vinto nel 1904 in circostanze del tutto particolari. Bernal invece è battuto di 9 giorni da François Faber, la cui vittoria risale ben al 1909. Per trovare corridori più recenti bisogna scendere al 8° e 9° posto con Laurent Fignon (1983) e Jan Ullrich (1997). Nei primi 25 ritroviamo solo Alberto Contador e Andy Schleck (2007-2010) tra i nati almeno negli anni ’80, gli altri tutti precedenti.
Tra i più vecchi invece c’è più abbondanza di vittorie dagli anni ’80 in poi, con Hinault, Indurain, Riis, Sastre, Evans, Thomas, Wiggins e Froome (x2).
Inversione di tendenza o casualità? Vedremo. Nel frattempo i più giovani pare non abbiano né timori reverenziali né problemi di “esperienza”. Nelle gare delle ultime stagioni lo spettacolo è stato dato da loro. Filippo Ganna (24 anni) ha vinto in solitaria la 5^tappa del Giro 2020, Mileto-Camigliatello Silano, 225km e 4000mt. Un Giro d’Italia vinto da un 25enne, Geoghegan-Hart, su un 24enne, Jay Hindley, con 3° un 29enne, Wilco Keldermann e con il 4°, il 22enne Joao Almeida, che ha vestito la maglia rosa per 15 giorni.
Mathieu van der Poel, in tema di roboticità, ha vinto l’incredibile tappa di Castelfidardo alla Tirreno, con una fuga di 50km sotto la pioggia (in completo estivo) davanti a Pogačar (poi vincitore della generale) ed il solito Van Aert.
Già, perché nell’epoca del ciclismo super-specialistico, a scombinare le carte in tavola c’è proprio il belga Wout Van Aert, vicecampione del mondo su strada e a cronometro, che vince in volate da sprinter veri, in solitaria, nelle classiche, nelle gare a tappe e ammazza mezzo gruppone in salite vere ai grandi giri.
Ubiquo insomma, ma che si deve guardare le spalle pure dall’ultimo arrivato, il turbo-folletto Tom Pidcock, 22 anni, che lo ha fregato alla Freccia Brabante e poi gli stava far per girare male la stagione all’Amstel se il belga non avesse messo 1 capello tra se e l’inglese. Pidcock che alla terza e quarta gara da professionista (Kuurne-Bruxelles-Kuurne e Strade Bianche) ha fatto 3° e 5°.
In tutto questo i nati negli anni ’90 invece sembrano persi. Thibaut Pinot (1990) naufragato tra il mal di schiena ed un ciclismo che sembra non piacergli più. Fabio Aru (1990) anche lui piagato da guai fisici, ma anche da una continua ricerca di segnali di riscatto. Ma si possono nominare anche altre star del ciclismo di colpo eclissate dagli ultimi fenomeni: Romain Bardet (1990), Peter Sagan (1990), Greg Van Avermaet (1985). A cui si possono aggiungere anche Marcel Kittel (1988) e Tom Dumoulin (1990), che addirittura hanno deciso di appendere la bici al chiodo, almeno momentaneamente nel caso dell’olandese.
Il punto è che i giovani di ricambio non mancano, anzi, ne escono sempre di nuovi, e tutti “pronti subito”. Impossibile non citare Remco Evenepoel, ma anche il connazionale Mauri Vansenvenant (21 anni) o Pavel Sivakov (23) e Marc Hirschi (23). Ma la lista è lunga.
Giovani che possono contare appunto su squadre che non li lasciano crescere contornati da veterani gelosi dei loro segreti o stregoni vari, ma da gente che gli dice cosa e come fare, secondo criteri scientifici, per farli rendere al meglio. E con pure il supporto di psicologi per preservarli mentalmente.
Insomma, un cambiamento che ha portato ad un improvviso ricambio generazionale senza precedenti, almeno recenti, con tutte le regole stabilite negli ultimi 30 anni a saltare, regalandoci un ciclismo per niente “robotico”, ma anzi pieno di colpi di scena e margini di vittoria risicatissimi: Giro 2020 vinto all’ultima tappa per 39″, Tour 2020 vinto all’ultima tappa per 59″, Vuelta 2020 vinta per 29″; con tutti i favoriti protagonisti, ma spazio anche per outsider di valore (Stuyvens, Asgreen).
E spazio anche per esperimenti fino a poco tempo fa impensabili, come l’arrivo in gruppo di Anton Palzer, alla Bora-Hansgrohe, scialpinista convertito al ciclismo, che a 28 anni, alla primissima gara da pro, il durissimo Tour of the Alps, è arrivato 47° in generale. E con tranquillità e senza misteri, racconta in un’intervista che riesce a tenere 370w per 1h, ma che ha ancora difficoltà ad esprimere tutta la sua potenza dato che non è abituato alle accelerazioni a 500w (per 3′) che capitano “una ventina di volte a tappa” delle gare pro. Una cosa a cui si sta abituando però, e senza complessi pare, dato che ha lanciato lì: “ho corso ormai già un paio di volte con Christopher Froome. Il tizio ha vinto 4 Tour de France e non ce le faceva più. Se lui era già alla canna del gas, cosa ci faccio io lì?”.
Chissà cosa ne pensa il tizio.
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