L’allenamento in quota: miti e realtà

[et_pb_section bb_built=”1″ admin_label=”section” _builder_version=”3.0.47″][et_pb_row admin_label=”row” _builder_version=”3.0.47″ background_size=”initial” background_position=”top_left” background_repeat=”repeat”][et_pb_column type=”4_4″][et_pb_text admin_label=”Text” _builder_version=”3.0.86″ background_size=”initial” background_position=”top_left” background_repeat=”repeat” background_layout=”light”]

L’argomento si è diffuso alle masse nel 1968, in occasione dei giochi olimpici di Città del Messico, ma ora, con la ormai diffusa possibilità di muoversi a basso costo anche in destinazioni più o meno esotiche, nonché la classica tradizione di imitare i comportamenti dei professionisti, è diventato abbastanza comune l’allenarsi in alta quota per periodi più o meno brevi durante l’anno.

Come ogni argomento ciclistico (e non), miti e realtà si fondono nei vari passaparola. Prima di affrontarli cominciamo a precisarne il vocabolario:

Ipossiemia: è la minore quantità di ossigeno trasportata nel sangue. Si parla di ipossiemia quando la pressione parziale nel sangue di ossigeno scende sotto PaO2 < 60 mmHg. L’ipossiemia prolungata può portare alla ipossia o alla tachicardia.

Ipossia: è la diminuzione della quantità di ossigeno distribuita ai tessuti dal sangue per unità di tempo. Porta a segni e sintomi di una ossigenazione inadeguata dei tessuti.

Ipossia da altitudine: quella di un ambiente naturale è detta ipobarica, ed è la diminuzione della pressione dell’aria atmosferica che porta alla diminuzione della pressione parziale di ciascuno dei gas che la compongono, tra cui l’ossigeno. Tuttavia ogni gas resta identico in proporzione: vi è sempre circa il 21% di ossigeno nell’aria. Varia solo la pressione atmosferica. Quello che è importante quando respiriamo non è la concentrazione del gas, ma la pressione con cui arriva agli alveoli polmonari. Se si priva una cellula nervosa di ossigeno per tre minuti essa muore. Ma la diminuzione di pressione ha conseguenze anche su cuore, fegato, reni e respirazione.

Ipossia normobarica: spesso è utilizzata in laboratorio per simulare un aumento di altitudine, ma non tramite una diminuzione della pressione dell’aria, ma semplicemente tramite una diminuzione della percentuale di ossigeno nell’aria respirata (<21%) , ottenuta ad esempio aumentando la percentuale di azoto.

L’obiettivo teorico dell’allenamento in altitudine è di migliorare il trasporto di ossigeno verso i muscoli. Le reazioni dell’organismo all’ipossia da altitudine sono di vari tipi:

Riposta ematologica: la fabbricazione di globuli rossi (eritropoiesi) è stimolata dall’aumento della secrezione di eritropietina (EPO). Ne risulta un aumento della capacità di trasporto dell’ossigeno. Si può considerare un aumento del 1% di emoglobina a settimana con un soggiorno a 2000mt di altitudine.

Riposta ventilatoria: la ventilazione polmonare aumenta in un primo momento, poi si stabilizza progressivamente con l’acclimatazione.

Riposta cardiaca: la produzione di adrenalina aumenta con conseguente aumento della frequenza cardiaca a riposo e della frequenza cardiaca sub-massimale. Non c’è però un aumento della frequenza cardiaca massimale. Dopo qualche giorno in altitudine questi due valori tornano ai livelli precedenti all’aumento di quota.

Riposta muscolare: l’esposizione all’ipossia porta ad un aumento della mioglobina, quindi un aumento della densità dei mitocondri ed anche quello dell’effetto-tampone.

Gli effetti dell’altitudine sulle componenti della prestazione si possono dividere su due ambiti:

Prestazione aerobica: appena un atleta si espone agli effetti dell’altitudine le sue capacità aerobiche sono sistematicamente limitate. Il calo delle prestazioni aerobiche in funzione dell’altitudine è un fenomeno molto ben documentato. Il consumo massimale di ossigeno diminuisce dai 600mt, ed è minore del 10% a 2000mt. Del 30% a 5000mt. Queste limitazioni tuttavia sono meno marcate dopo qualche giorno di acclimatazione, e nel ciclismo, compensate dalla migliore penetrazione nell’aria meno densa (basti pensare ai tentativi in quota di record dell’ora).

Prestazione anaerobica: A differenza della prestazione aerobica la potenza anaerobica viene poco modificata in altitudine. Solo la capacità di recupero viene parzialmente meno. L’ipossia acuta porta ad una produzione superiore di lattato dopo esercizi massimali, ma un periodo di acclimatazione in media quota porta ad un miglioramento delle capacità tampone del muscolo, che può portare ad un miglioramento temporaneo in prestazioni brevi ed intense (sprint).

Fatte queste premesse veniamo ai miti e realtà a riguardo, come documentate in un articolo di Christian Vaast, formatore della Federazione Francese di Ciclismo.

Gli allenamenti in altitudine o in ipossia sono efficaci oltre i 15gg, non meno; mentre oltre le tre settimane alcune proteine si formano nei muscoli e ne degradano la struttura. Bisogna inoltre sapere che subito dopo seguono circa dodici giorni di fase instabile con alti e bassi di forma fisica. Gli effetti positivi però possono perdurare sino a due mesi, e la concentrazione di globuli rossi ritrova il suo stato precedente dopo quattro mesi.

Gli effetti positivi dell’allenamento in quota sulla prestazione aerobica al ritorno del livello del mare non sono ancora stabiliti con certezza. Le strategie di allenamento sono tuttavia cambiate dagli inizi degli anni ’90, ed oggi il metodo prevalente (o più in voga) consiste nell’esposizione intermittente all’altitudine.

Un primo approccio consiste nel vivere a livello del mare, dove ci si allena, per poi dormire in quota o in ipossia. Questa tecnica permette di combinare i vantaggi di un soggiorno in quota con la possibilità di allenarsi normalmente senza essere obbligati a variare il programma di allenamento in funzione del calo di prestazioni. Altro metodo ora diffuso è vivere in quota, allenarsi a livello del mare e dormire in quota.

Il dibattito sulla metodologia migliore resta tuttavia aperto. Da un lato i lavori scientifici realizzati da molti anni non hanno provato in modo indiscutibile i vantaggi di queste metodologie, dall’altra vi sono le esperienze di molti allenatori e dei lavori effettuati coi propri atleti che le corroborano. Evidentemente si tratta di trovare la giusta via di mezzo tra chi opera su valori mediati su gruppi e chi su casi singoli. Infatti, se su alcuni sportivi l’allenamento in ipossia sembra essere efficace a livello di miglioramento prestazionale, su altri non è cosi. Non è dunque escluso che altri fattori associati all’ipossia giochino un ruolo sulla prestazione. Ma per il momento si hanno solo studi preliminari o ipotesi.

 

Bibliografia: Frédéric Grappe, Cyclisme et optimisation de la performance, Ėditions De Boeck, 2005

[/et_pb_text][/et_pb_column][/et_pb_row][/et_pb_section]

Articolo precedente

Frattura del bacino per Mark Renshaw

Articolo successivo

[Test] Cannondale SuperX SE Force 1

Gli ultimi articoli in Magazine